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ROBERTO LATINI
parole
è solo amore
in Culture teatrali 2019. Leo De Berardinis oggi.
a cura di Laura Mariani e Cristina Valenti
La Casa Usher, 2019
“Vado.. ma dove?.. oh Dio!
resto.. ma poi.. che fo!..
Dunque morir dovrò,
senza trovar pietà?”
(Pietro Metastasio, Didone abbandonata, atto III, vv 1362-1365)
In questi giorni di lavoro dentro e intorno al Teatro Comico di Goldoni, sono andato a ricercare questi versi.
Sono andato a ritrovarli nella memoria di un tempo ormai distante quasi tre decenni.. Li portò Leo de Berardinis, un pomeriggio del 1991, nell’occasione di una lezione di “dizione in versi” mentre ero iscritto alla scuola di Perla Peragallo a Roma: lo Studio di Recitazione e di Ricerca Teatrale, Il Mulino di Fiora. (ci tengo a tenere per esteso il nome della scuola, perché penso sempre che Perla e Leo ne abbiamo parlato precisamente).
Nei tre anni che sono stato iscritto alla scuola, Leo è venuto qualche volta: ad assistere alle verifiche o anche a dare i voti, o semplicemente a vedere i saggi o scene, o anche a far lezione, come quella volta. Passammo tutto il pomeriggio a dire questi quattro versi e da allora non li ho mai dimenticati, mai effettivamente collocati. Li ho tenuti da parte, come in affidamento.
Ne Il Teatro Comico di Goldoni, si fa riferimento ad altri versi della “Didone abbandonata” e ho deciso di inserirli nello spettacolo, come se in quel pomeriggio così lontano nel tempo, Leo avesse voluto darmi qualcosa che poi mi sarebbe tornata utile, senza immaginarlo. Scrivo nell’emozione di quando i ricordi hanno una qualche capacità nel quotidiano e riescono a smettere la nostalgia.
Questi quattro versi, in queste sere, ogni sera, dal palco del Teatro Grassi – Piccolo Teatro di Milano, sono il ponte tra quanto prima e quanto in divenire. La mia risposta personale, intima, a questo testo di Goldoni, al suo programma per il futuro, alla sua riforma messa per iscritto, destinata al palco, destinata alla platea. Mi porto questi versi e li aggiungo a quelli presenti ne Il Teatro Comico:
Enea, d’Asia splendore,
caro figliuol di Venere
e solo amor di queste luci tenere;
vedi come in Cartagine bambina,
consolate del tuo felice arrivo,
ballano la furlana anco le torri?
Li propongo insieme nel finale dello spettacolo, con un’eco interna, voglio dire, con una coda in forma di reverbero che nasce dall’incontro e dal montaggio quasi a sensazione, a sentimento, di quelli prima e quelli dopo; mentre sono in scena, li ripeto dal principio e mi diventano:
vado, ma dove?
resto, ma poi?
vedi, queste luci ? è solo amore.
è solo amore.
Goldoni mi si ricostruisce in un’intenzione possibile, potenziale.
E non resisto.
Perla Peragallo e Leo de Berardinis in accompagnamento. Me li porto entrambi, in misure, forme, diverse. Perla è stata la mia Maestra, quella che mi ha insegnato a imparare. Leo è stato l’altra metà del Cielo, quello nell’assenza, quello che lo sapevo che c’era, pure se non lo vedevo mai. Forse è stata anche questa una lezione. Leo e Perla, per me, sono sempre stati Perla e Leo. Ho dei ricordi del loro rapporto. Certi sguardi di quando li ho visti insieme, trasmissione e ricezione sempre attivi, la condivisione, mi ricordo la tenerezza, la tenerezza! la voce di Perla che cambiava se era al telefono con Leo. Leo l’ho conosciuto poco. Ho conosciuto Leo attraverso Perla. Ho parlato poche volte con Leo. Tante con Perla, quasi tutti i giorni per tre anni, quando avevo appena vent’anni. Leo era presente nell’assenza, dicevo, nella sensazione fondamentale che Perla tenesse tutto in condivisione con Leo.
Particolarmente, ricordo che al secondo anno, tutta la didattica fu intorno a Shakespeare. Le traduzioni con cui abbiamo lavorato sono state quelle che mandava Leo. Poi, era emozionante andare a Teatro con Perla a vedere Leo e la sua compagnia delle meraviglie e in certi passi shakespeariani sapere a memoria il testo.
Ancora oggi, le mie traduzioni preferite sono quelle che ho studiato allora.
Ricordo Leo che dice “Essere o non essere” al Teatro Argentina di Roma, con un microfono in una mano e l’altra disarmata, sotto una luce piccola tra il rosso e il viola.
Ricordo l’emozione di sapere le parole precise appena prima che fossero dette e poterle sentire già nell’attesa del respiro precedente.
A pensarci oggi, era questo il completamento della scuola. Sul ponte tra Leo e Perla ci fu concesso di passare e guardare il vuoto giù di sotto, sempre così pieno, come quando dal palco la platea.
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Oggi, a dieci anni dalla loro scomparsa, dalla loro continua presenza, i pensieri in riferimento si sono moltiplicati e si aggiungono in forma di domande senza possibile risposta. Le regole, i concetti, i precetti per dirla col Teatro Comico di Goldoni, cambiano come le conquiste quotidiane, come le sconfitte, come ogni volta è importante lasciare andare le cose senza trattenerle. Perla e Leo sono stati Maestri di una lezione senza fine, una lezione sola, che è quella del Teatro. Quanto da allora si trasforma – e mi trasforma – è nel sentire che Perla definiva “scenico”. Non ho mai smesso questa sensazione, mai rinunciato al potervi essere ammesso, sempre sperato di essere invitato alla bellezza di quella tenerezza.
Roberto Latini
APPUNTI PER UN ELOGIO DEL SIPARIO
In “SPETTACOLO DELL’ANNO”
www.doppiozero.com
31 dicembre 2017
Scrivo con piacere intorno a un tema intrattenibile, mutabile, ma come fosse possibile.
Scrivere è già di suo un teatrino, con tutte le caratteristiche della scena che si apre oltre la grammatica evidente e, a proposito delle parole, so che certe poche volte si combinano e altre spesso che-peccato non combinano un bel niente. Un po’ come il Teatro.
L’assoluto certamente non è dato. Resterò coscientemente nel relativismo, come la percezione insegna. Vorrei dire perciò (però) non di quanto visto, ma del Teatro che vorrei, di quello che ho creduto forse di vedere, di quello che spero, quello fuori dall’architettura di progetto, senza la sapienza che diventa strategia; di quello che non si rappresenta, che schiva la recita, che non è intrattenimento, che non reclama la visione, né del tempo, né dello spazio scenico. Quello che non mortifica lo sguardo e ogni aspirazione. Che non pretende, non presume.
Non posso definirlo dentro una tendenza, ma vorrei parlarne invece intorno alla tensione.
Quando il Teatro accade, cade, piove improvvisamente addosso e intorno e dentro a se stesso, come la fantasia del Purgatorio di Dante o di Calvino a proposito di Visibilità.
Approfitto per scrivere invece qualche appunto intorno a quale penso sia per me l’occasione del sipario che si apre alla platea o di quando sono spettatore, “a-spettatore”, di cos’è che spero, aspetto, aspetto e spero, senza averne nemmeno mai davvero capacità o certezza di coscienza.
Ci giro intorno, come in un corteggiamento che mi illude, che mi fa credere di potervi essere ammesso, mi fa credere di poter credere, perché è questo credere che voglio, fortemente, tra le luci artificiali del palco o nel buio innaturale di platea. Il patto è stabilito, me lo ricordo sempre.
Penso al sipario che si apre, all’inizio, come le braccia che ci tengono tra le braccia e che si chiude, alla fine, come tra le braccia che ci tengono tra le braccia.Il sipario è la questione, l’emozione, anche quando non c’è.
Anche quando non c’è, mi sembra di vederlo sempre.
Nel I atto di La Tempesta, Prospero dice a Miranda:
“The fringed curtains of thine eye advance and say what thou seest yond.”
“Spalanca il frangiato sipario dei tuoi occhi e dimmi cosa vedi laggiù”
Lei risponde.
“What is ’t? A spirit?”
“Che cos’è? Uno spirito?”
Ci penso.
Ci penso sempre.
Ci penso sempre in tutte le decisioni che decido mentre sono in scena e anche in quelle di quando sono seduto lì davanti e un Prospero qualsiasi, dal palco, mi pone la domanda.
Vorrei rispondere come Miranda, sempre.
Sono così quando sono spettatore.
Vorrei chiedere cos’è, senza davvero saperlo, col rischio reale di non capirlo davvero.
Vorrei rispondere anch’io con una domanda e dire: “È uno spirito?”
Ci penso.
Ci penso sempre.
Nel I atto di I Giganti della Montagna, Cotrone dice ai suoi:
“Su, svegli, immaginazione! Non mi vorrete mica diventar ragionevoli!”
Immaginazione!
Lo dice rimproverando la paura, nella bellissima certezza esclamativa di chi sa come vincerla la paura, di chi sa che vincerla si potrebbe.
Immaginazione! Un esortativo definitivo. Un’esortazione che definisce la questione, risponde alla domanda.
Prospero e Cotrone, così lontani e così vicini, ed entrambi all’atto I.
Shakespeare e Pirandello, così vicini e così lontani, ed entrambi nell’opera testamento, nell’ultima scena del loro scrivere, sospesi e magici come quei protagonisti.
Ci penso.
Ci penso sempre.
Tra i pensieri pensati, i tra i pensieri pensanti altri pensieri, la sfida è a quel che sembra, a quel che capisco, alla velocità con cui posso capire, con cui mi sembra di capire, di tenermi nella sollecitazione della curiosità, del verosimile, del probabile, del potenziale.
Il Teatro non è conquista, certamente non certezza, non ne ha a che fare, non può darne – a chi interesserebbe veramente?
Questo è quello che spero quando sono in platea, quello che aspetto; questo è quanto aspetto e spero quando dal palcoscenico lo vedo che quel buio lì di fronte vuole dirmi che il vedere non si vede.
Quello è il buio che si sente.
Dal sipario in poi, non si può guardare, si può sentire solamente.
“Sentire” è, insieme, ascolto e sensazione.
Ecco, come quando tra le braccia,
come di fronte a un sipario.
Roberto Latini
IL TEATRO NON SI PUÒ INSEGNARE
PISTOIA, settembre /ottobre 2017
Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il teatro non si può insegnare, Il 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ma si può imparare.
Ho sempre questa sensazione al cospetto dei Maestri. Ho sempre questa sensazione di fronte ad allievi attori.
Sono stato chiamato da Federico Tiezzi per una fase di lavoro all’interno del Laboratorio Toscana ….
Rispondere a un invito per un progetto di formazione così strutturato vuol dire sapere di avere a che fare con la chiarezza di intenzione, che è quella che si spera ogni volta ci si trova di fronte a un gruppo di lavoro.
Porto con me dei fondamentali e ogni volta cerco di metterli a misura del patto necessario.
Mi è stato chiesto di lavorare su testi di Plauto, tenendo come opzione principale Anfitrione.
La destinazione sarebbe stata uno spettacolo-laboratorio-in-forma-di-esercizi che mettesse in evidenza il percorso per gli attori.
PLAY PLAUTO, il titolo.
Destinazione, ma anche condizione e aspirazione.
Plauto, particolarmente Anfitrione, ma non la trama davvero, non il meccanismo di scambio, ma lo spirito da commedia, con tutte le sue altezze o bassezze tradotte per il teatro.
Abbiamo lavorato ad alcune scene, dimenticandole il prima possibile, rimandando una possibilità di narrazione, cercando di stare invece nello spirito del gioco.
Federico Tiezzi mi ha chiesto di lavorare con le parti originali in latino e ho trovato entusiasmante, nel suo esotismo, avere a che fare con la pericolosità di non aggrapparsi all’evidenza di senso del dire, non poter rifugiarsi nelle parole, ma stare lì, scoperti, di fronte al verosimile.
Il teatro, oltre che linguaggio, è lingua e può permettersi di fingersi in altre lingue, dialetti, suoni, anche incomprensibili.
Quanto “sembra”, in teatro, credo sia sempre più interessante di quello che “è o non è”. La misura del sembrare, della sensazione, è dove si gioca la questione.
Il teatro è un invito, continuamente, all’indefinizione. Un invito all’immaginazione.
All’interno di un percorso laboratoriale, tutto il materiale prodotto è il mezzo, non il fine.
Intercettare percorsi, vuol dire anche essere intercettati, mettersi nella disponibilità della discussione.
Mettersi in discussione ogni volta che si spiega quanto conquistato o almeno quanto in questa sensazione.
In un lavoro come questo, basato sul principio teatrale di ascolto e relazione, l’appuntamento comune che abbiamo cercato di tenere in vista è stato Plauto come occasione.
Occasione per il Teatro, per il suo tentativo. Giocare a Plauto, farlo seriamente, nella possibile moltiplicazione del potenziale.
Abbiamo lavorato intorno al concetto di doppio, del simile, del quasi uguale, o anche uguale ma diverso.
Abbiamo costruito un percorso dinamico che guardasse al ritmo di vuoto e pieno e che ci permettesse di evolvere il gioco dall’interno.
Produrre materiale da mettere a disposizione dell’evidenza e che permettesse riflessioni in ogni suo particolare.
Ci tengo molto a spiegare passo passo quello che penso e a sollecitare considerazioni.
È questo il laboratorio: mettersi nella consapevolezza, tenersi in relazione critica e costruttiva.
Avviso sempre che cercherò di essere esatto nelle definizioni, o almeno il più possibile.
Ho frasi ricavate da tutto il tempo del mio lavoro, tentativi, da tutti i tempi del pensiero.
“Non disturbare lo spettacolo”, questa è sempre la mia prima richiesta, la più importante.
Se si capisce l’occasione in tutte le sue sfumature, se ci mette nella disponibilità può diventare più facile decidere le decisioni continue che bisogna prendere quando si è in scena.
Ho lavorato con un gruppo affiatato e capace. Uso delle parole esatte. Un gruppo composto di singoli scenicamente molto diversi, ma con quella qualità di disponibilità che diventa bene comune.
Ho visto ognuno di questi ragazzi accompagnare quello in scena anche dalle quinte, dalla parte di palco sospeso, dalla parte della propria parte tenuta con la cura di quando ognuno sul palco fa finta veramente.
Il lavoro insieme è stato nel privilegio di questa sincerità, nel fare la verità.
Vorrei imparare questo ogni volta che mi rendo conto che non si può insegnare.
Grazie.
Roberto Latini
IN SILENZIO IN CORO
in V. Valentini (a cura di), Drammaturgie sonore. Teatri del secondo Novecento
Bulzoni, Roma 2012
non è sufficiente quanto la tecnica si affanna ad insegnare.
non è mai completamente pertinente.
la voce è viva, potenziale ed indomata.
non possiamo averne mai pieno controllo, né accanirci oltre la misura che ci è data, la misura che ci è diventata, che siamo riusciti nel tempo a migliorare, quella che abbiamo a un certo punto capito un po’ di più.
l’imperfezione di ogni voce è la sua natura stessa, la bellezza è incompletezza, premiata solo grazie all’eco che è capace di suonare nel cuore o nell’altrove di chi ascolta.
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la voce è il suono che arriva dal respiro.
è il respiro suonato ciò che noi chiamiamo voce.
la voce è insieme suono e senso.
la voce è il teatro del respiro.
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dal palcoscenico ogni suono è una questione, ogni rumore.
il rumore di ogni corpo, dell’azione, il rumore degli occhi oltre lo sguardo.
il rumore di tutta la platea e quel silenzio che è improvviso, consolante, sempre nuovo, enorme ma così leggero di quando lo spettacolo riesce.
il silenzio è la misura di quanto siamo, di chi siamo e chi possiamo insieme.
il silenzio è la voce che si compie, ci completa.
dove la musica si ferma ad aspettarci.
dove ogni suono inventa.
dal palcoscenico la questione è ogni silenzio.
il silenzio di ogni attore o spettatore, il silenzio delle cose, un gesto, un’intenzione, il silenzio dello spazio, il silenzio collettivo, il tempo del silenzio.
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ogni platea partecipa a quello che dal palco si propone.
l’accordo del silenzio è la voce degli spettatori.
la condizione necessaria, la prima aspirazione.
lo spettacolo invita innanzitutto al silenzio tutti insieme.
per metterci in ascolto e in relazione, dire meglio, proporci di continuo mentre lo spettacolo succede.
in silenzio è interlocuzione.
ogni attore è in dialogo col buio oltre il proscenio e con la voce muta dello spettatore.
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ho impiegato tutto il tempo del mio lavoro per scrivere queste poche frasi (e so che hanno solo il valore di un pensiero. un pensiero mai a riposo e in continua evoluzione).
negli ultimi dieci anni, particolarmente grazie alla pratica di vari sistemi per l’amplificazione: dai microfoni al motion capture, all’aurofonia.; dalla voce addosso alla voce intorno, veicolata, distribuita, dai risuonatori del corpo dell’attore fino ai differenti mondi dell’universo microfonico, dai vari gradi della stereofonia, all’effettistica usata come grammatica di un dire che sovrascrive la drammaturgia, dalla distribuzione dei diffusori e fino all’architettura di ogni sala.
abbiamo frequentato sperimentazioni, amplificando tutto quanto ci è stato possibile, all’interno di un progetto intitolato RADIOVISIONI e attraverso spettacoli come BUIO RE – da Edipo a Edipo in radiovisione; PER ECUBA – Amleto, neutro plurale; UBU INCATENATO; LE MADONNE; IAGO – concerto scenico con pretesto occasionalmente shakespeariano per voce dissidente e musica complice; DESDEMONA E OTELLO SONO MORTI;
abbiamo avuto l’occasione di produrre per la radio, di curare drammaturgia, regia, messa-in-voce della sezione teatrale di un programma di RADIO3 o di adattare testi come CAVALLERIA RUSTICANA di Giovanni Verga e SPLENDORE E MORTE DI JOAQUIN MURIETA di Pablo Neruda.
attraverso il motion capture abbiamo amplificato l’azione sulla scena, interpretando l’esoscheletro indossato dall’attore come un microfono del corpo; con i settaggi per l’aurofonia abbiamo invece ribaltato la questione dal palco alla platea, amplificando non la voce degli attori, ma l’ascolto degli spettatori.
la necessità di rimanere dentro lo spettacolo, a dispetto di qualsiasi effettistica o esibizione tecnologica è stato il nostro unico obiettivo.
abbiamo applicato pensieri ai risultati, e convinti a un certo punto che la voce e il suono entrano in scena per disabitare, per produrre antimateria.
la scena è insieme il suo contrario. è il suo doppio, il suo rovescio, il negativo,
la scena è contemporaneamente l’antiscena.
l’amplificazione non aumenta quanto detto, ma il silenzio intorno.
prima di ogni altra voce o suono, l’amplificazione amplifica il silenzio.
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per il fascino che la dimensione metateatrale ha per noi all’interno di ogni nostra produzione, per la capacità, cioè, che il teatro ha di perdersi coscientemente, il palcoscenico è già di suo un’amplificazione.
ogni quadro che si apre oltre un sipario ha insieme la vista generale e l’occasione del dettaglio. il teatro amplifica sguardo, ascolto e relazione, ogni senso ed ogni sospensione.
il teatro amplifica il silenzio.
per questo riusciamo a parlarci dentro come mai potremmo altrove.
per questo ci si può ascoltare.
l’accordo segreto dello stare è tra realtà e finzione, nel paradosso che è la parte di ogni attore e nel paradosso di ogni spettatore.
insieme è la condizione necessaria perché la convenzione resti attiva, produttiva e possa addirittura, in certi stati di grazia, superarsi.
è un concetto che penso fondamentale, perché ci slega dalla passività della partecipazione che può essere vinta solo dalla coscienza che in ogni singolo diventa collettiva.
consapevolmente.
consapevolmente disponibile.
consapevolmente disponibile alla collettività che siamo.
alle piccolezze o grandezze che possiamo.
ogni stimolo reale che viene dai confini della finzione, dalla ripetizione di ogni replica, dall’unicità di ogni appuntamento sposta un po’ più in là quanto sappiamo di sentire, quanto capiamo o accettiamo di non spiegarci poi davvero.
ogni moto “a perdere” vince un po’ di strada in più; ogni volta che saltiamo sulla sedia, una poltrona, panca, su un cuscino messo a terra, smettiamo d’esser soli; quando chi agisce la scena respira insieme ad ogni spettatore, quando chi è in scena reagisce al teatro e lo fa invitando di continuo ogni spettatore, quando ogni spettatore riconosce l’occasione dell’appuntamento, quando insomma il teatro succede, succede insieme.
in silenzio, in coro.
Roberto Latini
DECLINANDO TEATRO
in L’informazione – Il Domani
Bologna 12 ottobre 2010
Ringrazio per la disponibilità al confronto e per la nuova occasione. Ci tengo a precisare ulteriormente la posizione dalla quale scrivo che non è per la rivendicazione di una soluzione specifica dei problemi del Teatro San Martino, ma nell’esortazione di un ragionamento che possa includerci senza limitarsi a risolverci. Ho annunciato la sospensione della programmazione 2010 – 2011 per motivi principalmente economici. Questa è però una conseguenza di qualcosa d’altro che è invece quanto mi piacerebbe potesse diventare l’argomento di discussione. Tutti i problemi di gestione della cultura sono legati ad un problema semplicemente culturale. Il Teatro San Martino è soltanto l’ultima conseguenza di questa politica. E la politica dovrebbe essere l’applicazione di un pensiero. Non si possono pensare le istituzioni come un interlocutore assistenziale, né le istituzioni possono trovarsi a risolvere, questione per questione, tutti quelli che nel tempo potrebbero reclamare un’attenzione. Bisognerebbe smetterla di inventare, volta per volta, soluzioni provvisorie. Bisognerebbe capire che sono forse maturi i tempi perché un pensiero più grande possa diventare esempio per altri pensieri. L’esperienza delle nostre ultime tre stagioni mi piacerebbe fosse considerata come patrimonio comune, come anche comune mi piacerebbe potesse essere il pensiero applicato alla gestione del patrimonio culturale. Ho cercato di spiegare che non vogliamo essere salvati con una qualche dose di miracolo. Siamo un gruppo di persone che in questi anni si è concentrato sulla buona riuscita di un progetto che si chiama “condivisione”. Il Teatro è di tutti, non di chi se lo può permettere. Contrariamente, si rischia il paradosso che trasforma i teatri in aziende private in cui gli spettatori diventano “i clienti”. Questo dovrebbe essere culturalmente inaccettabile e inaccettato. Il sistema teatrale italiano è un malato in fase terminale, tenuto in vita con soluzioni quotidiane che non riescono a garantire niente più del riconoscimento della crisi che è, per certi versi e in parecchie situazioni, l’alibi perfetto per l’indecisionismo e per il non-coraggio di cui questo paese riesce puntualmente a servirsi. O l’italia è un paese in cui la fuga dei cervelli c’è già stata, oppure c’è un’intelligenza inarrivabile che governa e insegna. In ambedue i casi, il disagio di questa condizione dovrebbe provare almeno una soluzione: la politica dovrebbe darsi gli strumenti per mettersi da parte. Dovrebbe la cultura tutta non correre mai alcun rischio dentro gli avvicendamenti politici. Se questo non succede a livello nazionale, un Comune come quello di Bologna potrebbe dare un segnale preciso e innovativo. Forse i tempi sono davvero maturi per un vero salto culturale. Forse potrebbe addirittura questo essere il regalo della crisi. Il Teatro San Martino può essere un’occasione sprecata come anche sprecata è stata quella del Teatro Duse. Bisognerebbe smetterla di risolvere problemi. Bisognerebbe agire con nettezza e con coraggio un ripensamento generale. Non diventare complici di questo sistema che ha ammesso ormai da anni i suoi limiti fondamentali. Solo attraverso la potenza delle idee non distratte dalla convenienza e dai miraggi di qualsiasi stratagemma, sarà possibile un’evoluzione. La misura unica di una società è la sua capacità di leggersi e di scriversi. L’espressione di sé è il Teatro. Potremmo avere, tutti insieme, più rispetto per noi stessi.
Roberto Latini
DIREZIONEARTISTICA È UNA PAROLA SOLA
in INCURSIONI > POTERE SENZA POTERE / SANTARCANGELO 2008
POTERE SENZA POTERE / TUTTI I RILASCI LENTI SCRITTI
www.altrevelocita.it
18 agosto 2008
Che cosa vuol dire direzione artistica?
Scusate.
Rispondo con piacere ad un invito pensando all’occasione dell’incontro.
Eppure arrivo a questo appuntamento con qualche cosa che somiglia allo stupore degli anziani.
A farci caso, a un certo punto, i vecchi assumono negli occhi una luce che è a metà tra quella di chi ha capito tutto e quella di chi capisce che non ha capito niente mai.
Sono due aspetti che producono la stessa sensazione e non è dato a nessuno di sapere quale sguardo stia scegliendo il vecchio per guardare il mondo.
Arrivo con questa sensazione, senza scegliere, per limite d’età raggiunta, il mio possibile stupore, ma sicuro di sapere che ho capito delle cose e quindi molte altre ancora no.
Scusate.
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“DirezioneArtistica” è una parola sola formata da molte escluse.
Così semplice, che ad alcuni sembra difettata per chiarezza.
Come fosse sempre meglio complicare, fare finta di capire altro e proporre inutili questioni all’attenzione, i malintesi di cui siamo bravi tutti trovano in questo accostamento quanto il dubbio stesso non potrebbe.
Si dice “direzione” cedendo all’accezione di “dirigere”, ma la parola non è mai completa in questa forma. Manca la sostanza che la guida, la trasforma, la destina.
“DirezioneArtistica” è una parola sola formata da molte escluse.
Un’idea semplice che per speranza dovrebbe voler dire solo “andare verso”, o significare cose lì nei pressi di “destinazione o percorso, traccia, strada”.
Dovrebbe indicare soltanto una condizione, un’indicazione, un punto di vista, non essere la maschera di altre figure che altri nomi dovrebbero avere.
Nel nome dell’artisticità non si può proteggere nessun’altra operazione. Non mistificare, manomettere, nascondere.
Non confondere, mimetizzare, sdoganare promiscuità.
Non scambiare l’autolegittimazione di alcuni barattandola con un ruolo senza competenza.
DirezioneArtistica non è organizzazione, referenza politica, capacità manageriali, o meriti o bravure similari.
Sono altre le figure necessarie a questi compromessi.
Perché ci si ostina a far casino con i nomi?
È un’attitudine che diventa vizio.
Perché negare le definizioni?
Se non fosse in buona fede sarebbe strategia.
Il direttore artistico deve essere qualcuno con competenze artistiche.
Legate al fare artisticamente. Al produrre pensiero. Condividere.
Qualcuno quotidianamente rivolto verso gli altri, in movimento, non barricato dietro l’immobilismo di una definizione.
Non il presidente, non l’amministratore, non il critico, il manager, l’organizzatore, l’opinionista.
Il direttore artistico non è colui che dirige ma colui che garantisce l’artisticità delle scelte.
È un garante, solamente, un custode, l’ospite.
Perché non si lascia agli artisti la responsabilità della direzione artistica?
Perché ognuno non fa il proprio lavoro?
A chi e con quale merito viene in mente di proporsi per un ruolo fuori ruolo?
A chi e perché viene in mente d’accettare?
Come si fa a rivolgersi all’operatività degli altri senza rivolgersi alla propria?
In nome di quale verità?
Quale saccenza? Quale supponenza?
Il Direttore Artistico non può essere la testa di un inciucio, il terminale di altre operazioni, lo scudo dietro il quale si lavora in altri campi.
DirezioneArtistica è una parola sola composta da molti esclusi.
Già di suo dovrebbe estromettere da questa corsa gran parte di quelli che s’affannano.
Non si può diventare “direttori artistici”. È un ruolo che non può investire la persona del direttore.
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Mi dispiace per molti biglietti da visita in circolazione, ma secondo me si può soltanto dire che la “direzione artistica è affidata a…”.
E non può essere che condivisa.
DirezioneArtistica è una parola sola che non può essere lasciata sola.
Come si fa a garantire un percorso artistico se non rivolgendosi ai percorsi degli altri?
Di altri artisti.
DirezioneArtistica è la responsabilità di relazionarsi agli altri artisti, la capacità di coinvolgere altri artisti.
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Al Teatro San Martino di Bologna, dove sono responsabile per la direzione artistica (e non direttore artistico) ho operato solamente in questo senso.
Ho chiesto ai miei invitati di condividere un progetto, di costruirlo insieme, al di fuori delle mie personali idee e oltre l’artisticità di ognuno.
Concorrere.
Collettivamente.
I miei inviti sono stati rivolti agli artisti non ai loro prodotti.
Sono i miei colleghi che hanno deciso cosa portare in stagione, come rappresentarsi al meglio, come esprimersi all’interno di un percorso che non detengo io, ma che è stato a disposizione di tutti quelli che hanno partecipato. Scritto da tutti quelli che hanno scelto di portare se stessi e il proprio percorso al Teatro San Martino di Bologna. Ma io non sono stato il selezionatore.
Non ho potuto e non posso avere io la pretesa di conoscere quanto stanno facendo gli altri e giudicarlo e sceglierlo o bocciarlo. Rispetto a quale idea?
La mia, del teatro, è al plurale.
Per il mio punto di vista, teatro vuol dire sempre teatri, e quindi gli altri.
È il lavoro di tutti che produce questa direzione. Il responsabile della direzione artistica invita solamente. Gli artisti producono pensiero e non strategia.
È poi il pubblico che dà la misura del percorso, di questo andare verso, della “direzione”.
Il pubblico che diventa platea. L’altra parte fondamentale del teatro.
Il teatro succede in teatro. Tra platea e palco. Tra palco e platea. In quello spazio di mezzo. Non nei corridoi o tra le chiacchiere lì intorno. Non per merito degli spettatori professionisti, gli “spettattori”.
Non per quelli che fanno il teatro dalla platea usando il teatro degli altri. Non quelli che fanno di lavoro gli addetti del settore.
Usare l’artisticità di alcuni per le manovre non artistiche di altri è invece sciacallaggio.
Gli artisti non manovrano, muovono. Non possono essere manovrati, ma invitati solamente. Liberamente.
Metteteli in condizione. Senza condizioni o condizionamenti.
Ne ricaveremmo tutti di più.
Il difetto culturale, diffuso, di questo paese è che quelli che hanno un metro quadro di terra sotto i piedi, sufficiente soltanto a farli stare in piedi, non s’arrischiano mai a fare un passo in più. Meglio creare ponticelli nell’arcipelago dei provvisori piuttosto che rinunciare per coraggio alle reciproche legittimazioni.
Ecco una parola tutti i giorni fastidiosa: coraggio.
Se ne avessimo tutti di più non staremmo a scrivere, leggere, ascoltare parole così povere dentro discorsi così piccoli.
Se ci attenessimo alla sincerità delle relazioni, dell’incontro che chiamiamo teatro non rischieremmo l’assalto dei paraculi ripuliti che l’italia chiama ormai furbetti con quel pizzico d’orgoglio così caro alla nazione.
Per i paraculi si aprano i parateatri.
Per gli altri, una parola sola: coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio! Scusate.
Roberto Latini
IPERCORPO
in IPERCORPO. Spaesamenti nella creazione contemporanea
a cura di Paolo Ruffini
edito da Editoria & Spettacolo, anno 2005
teatro come IPERCORPO
(o della speranza d’un iperspirito)
il teatro è strafinito.
se ad un certo punto è ipernato, prima o poi sarà pure ipermorto.
(rapito da qualche forma di iperressurezione!)
tutto ciò di cui sarei capace non è niente rispetto a quello di cui non sono capace ora.
accettato questo, posso più serenamente tentare di vivermi per ciò che, credo, mi somigli. credo.
non è dato. è questione che appartiene a una ricerca.
dovrei sapere di me già abbastanza da conquistare una coscienza. e fidarmi. smetterla qui.
invece mi sorprendo di continuo con la mira verso altro. ho bisogno di dubbi nuovi.
il processo che genera altri dubbi è ciò che mi interessa.
e quello che mi interessa, lo confesso, è quello di cui ho bisogno.
questo stare non aspetta. presume essere già qualcosa d’altro, cominciato in qualche altra forma e in qualche altro dove. io proseguo solamente. solamente mi lascio andare. credo. so di crederlo. partendo da dove sono già finito, posso immaginare una massima distanza.
la massima distanza, invece, non riesco neanche a immaginare.
superato il dubbio sull’esistente, sull’altro che presume l’uno, l’unica certezza, un degno dubbio, è il confine.
quale il confine. quali confini. quale il primo dei confini.
credo proprio di aspettarmi lì. di aspettare lì.
di andare lì a cercare.
il teatro è un appuntamento.
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sul desktop del mio computer ho da anni un file che s’intitola “la serra”.
lì ci finiscono costantemente appunti, riflessioni, immagini fuori fuoco.
è un non-luogo, uno spazio in-divenire, un tempo ideale eppure certo,
così simile al teatro da avermi costretto ad una password d’accesso neanche troppo originale:
“sipario”.
immagino il teatro come un non finito,
non finibile.
nella sua natura credo sia l’imperfezione
l’imperfezione come aspirazione
l’imperfezione esatta, netta, giusta, precisa
l’imperfezione simile al difetto
il teatro come difetto.
assolutamente imperfetto.
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il proscenio è la parte più impietosa del palco.
avanzare dal fondo è qualcosa che ha una durata, per intensità, sempre maggiore rispetto all’allontanarsi, viceversa, verso il fondo.
da più vicino, nonostante noi, siamo più sinceri.
il palcoscenico è incapace di mentire.
scrivere è invece un po’ il contrario.
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le parole che seguono corrono i pensieri.
vengono da pagine diverse da quelle che verranno
o ad altre sarebbero destinate.
invece, per appuntamento, per imperfezione, per difetto,
saranno, qui scendendo, a rinunciare ad un discorso organizzato e scritto in falsa forma.
si faranno leggere non pronte, con i concetti che esse possono, come fossero in proscenio.
fare la verità.
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la verità mi piacerebbe. che tutti la dicessero. che tutti la facessero.
la verità.
che il teatro italiano si autodenunciasse, tutto, in blocco. per le proprie mancanze, per i propri espedienti, per il non-coraggio che spesso non è paura, è non-coraggio.
e che lo facessero gli artisti, e i critici. i direttori artistici e organizzativi.
le amministrazioni, i responsabili culturali di comuni, regioni, province.
la commissione consultiva del ministero, il ministro, il governo. e chi sta all’opposizione.
perché chi agisce la scena, chi la osserva, chi la partecipa, chi la gestisce,
non ha solo la responsabilità dell’analisi critica ma anche il dovere delle proposte.
di altre ancora. di altre ancora. di altre ancora. ancora.
non ci si può stancare.
chiedo altre parole, le più vicine possibile alla concretezza delle azioni.
a lei lo chiedo, a te, se hai voglia tu, di guardare in faccia ancora le cose e le persone.
qual’è il senso vero di questo nostro stare?
qual’è la verità?
il teatro è di tutti. il teatro è tutti. il teatro siamo.
non c’è altro da dire.
non ci sarebbe, credo, se le persone, le persone!,
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chi fa teatro è già un sopravissuto.
con la paura addosso di perdere il metro quadro che lo tiene in piedi.
il metro quadro conquistato spesso un po’ per merito e un po’ non.
abbiamo visto troppe menti della nostra generazione…
(e neanche le migliori)
un metro quadro che rimane un metro quadro.
in alcuni casi anche ben fornito; certe volte addirittura ricco.
da difendere ad ogni costo perché è costato caro. caro. caro. troppo caro.
ma quanto? chi ha pagato? chi è che paga ancora? noi paghiamo il tempo. con l’immobilismo.
c’è un tempo che reclama:
CONTRO L’INSOSTENIBILE E IMPOSSIBILE IMMOBILITA’ DEL TEATRO
DEI TEATRI IMMOBILI
STABILI.
la battaglia per il penultimo posto è sempre più cruenta di quella per il primo.
io non resisto.
alla precarietà. alla volgare sufficienza. alla pochezza della sola parodia. alle promesse del potere.
al potere.
ai titoli provvisori. alla vaghezza delle idee.
allo spaccio del futile e alla nebbia artificiale che richiede il mascherare.
alle bassezze di chi è troppo in alto per guardarlo in faccia.
a quelli che sono troppo avanti.
ai geni e alle benedizioni dei maestri.
agli inganni della cultura. alla cultura come arma. alle armi.
al teatro che non c’è bisogno.
a quello che non serve, grazie, a niente.
– prego!
agli ottimizzatori. ai maghi. ai falsificatori. ai mercanti. agli scambisti. ai cacciatori. ai replicanti.
al nichilismo. allo sticazzismo.
io non resisto e non combatto e non compatisco.
non ho pazienza né un rinnovabile vigore.
non sono forte io!
la ricerca è “a perdere”
il teatro non è trovare.
il teatro è sempre “di ricerca”.
il teatro di ricerca non trova.
il teatro è perdere.
cerco di imparare a perdere.
perdere. regalare.
una lezione è sul separarsi dalle cose.
una lezione è sul separarsi.
riuscire a separarsi.
il teatro è rinunciare.
il mio spettacolo non m’appartiene.
il mio spettacolo è a disposizione.
come me. come il palco che si è fatto scenico.
come i classici che sono un’occasione.
il teatro è un’occasione.
il teatro è un atto di responsabilità.
il teatro è un dono.
il teatro è malintesi,
perché tesi e antitesi convivono per progetto
cosa può davvero uno spettacolo
cosa non può
cosa dovrebbe
cosa non dovrebbe mai
ma quello che potrebbe è quello che può.
e se può, dovrebbe?
il teatro come dubbio:
a chi serve il teatro?
a che cosa?
siamo sicuri che uno spettacolo debba servire a qualcosa?
sulla raffinata inutilità degli spettacoli teatrali:
il teatro come lusso.
lusso necessario?
riconoscerlo, sì, come “non bisogno”
e volerlo, comunque, a tutti i costi?
il teatro come colpa?
il teatro è necessario?
siamo tutti necessari?
tutti sostituibili?
è vero. è vero.
siamo tutti non sostituibili.
il teatro è non sostituibile.
è falso. è falso. lo siamo tutti.
vieni a vedere.
il teatro è la piazza attiva dell’incontro.
ci si trova dentro le differenze.
non dentro le affinità.
mi attrae ciò che è distante.
non è vero.
sì, me ne vado.
ciao.
aspetta.
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aspetta.
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abbiamo fatto tutti i passi, abbiamo atteso con pazienza (resistenza).
abbiamo sperato che la creazione di un’opera non fosse giudicata che nel metodo,
che non fosse giudicata già.
abbiamo pensato, detto, chiesto, chiamato e atteso ancora.
poi qualcuno in mezzo a un buio di platea ha risposto e chiesto invece a noi di noi.
e fingendo, ma fingendo veramente, siamo rimasti a far la conta di quanti siamo ora.
quanti siamo, e come, non riusciamo più a capirlo.
siamo solo un po’ diversi dentro grandi differenze.
in assenza di incoscienza,
come accade sempre quando ci si trova sulla lingua la bugia migliore,
l’invenzione è riscoprire e far finta di inventare.
non siamo andati mai da alcuna parte.
quindi, quindi, quindi,
sono ancora cazzi nostri!
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ma anch’io sto fingendo veramente!
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il teatro è il luogo dove ho incontrato le persone peggiori che conosca.
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io sono una delle persone peggiori che conosca.
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ma perché la mia capacità teatrale, se ne ho una,
deve essere mortificata dalla mia capacità di sopravvivenza?
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il teatro è il luogo dove ho incontrato le persone migliori che conosca.
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io sono una delle persone peggiori che conosca.
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in quanto artista voglio tutto, anche un assistente sociale personale.
qualcuno dice: e gli ammortizzatori sociali.
in certi giorni sono così artista che pretenderei un assistente artistico.
e un mercato teatrale, addirittura.
e un assistente ammortizzatore.
e, addirittura, un mercato teatrale.
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forse non sono così artista?
guarda quanto sono artista!
:
poesia (con guida alle pause tra un verso e l’altro):
mi vergogno del teatro (pausa antica e occhi un po’ bassi)
mi vergogno del teatro che mi compie appena (pausa e leggero movimento della testa)
mi comprende, forse sì, comprenderà (pausa breve e rapida occhiata davanti a sé)
mi vergogno pure te (pausa moderna ma condivisa)
mi vergogno voi. per me (pausa in mezzo al verso e finale con occhi lucidi)
per tutti si vergogna (silenzio che faccia da eco e occhi fissi ma tenuti. testa appena bassa)
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hai letto quanto sono artista? lo hai fatto con voce disponibile?
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non venire. non tornare. (voce in crescendo)
più. più. più. (voce in crescendo)
tu ce l’hai il coraggio? (voce cresciuta)
vergognati! (voce a perdersi ma “per non dimenticare”)
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un giorno ho letto “c’è un bel sole!”
“c’è un bel sole!” l’ho riscritto ed ogni tanto lo rileggo e mi credo di guardarlo in faccia, di sentirlo soprapelle, di poterlo salutare con l’inchino prolungato di chi carica le spalle delle mani di chi guarda e ascolta e chiede, forse, di poter restare e basta. senza niente.
senza mani.
boom!
permesso?
le compagnie di teatro sono definite dal ministero “imprese di produzione”.
(discutiamo dell’impresa? [oppure la ammettiamo?])
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all’ETI pochi anni fa ci fu un corso in cui il pubblico veniva definito “il cliente”.
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come se lo spettacolo fosse solo di chi lo pensa e lo realizza.
e gli spettacoli che mi appartengono come spettatore?
sono tutti miei. anche miei. e di chi c’era.
(e grazie, grazie, profondamente grazie, a chi a teatro invece non va mai).
una pagina con delle belle frasi,
è comunque una pagina
la bellezza non si racconta.
(la bellezza e il coraggio, bla bla,
il coraggio della bellezza e la bellezza del coraggio)
la bellezza è
bla bla
confronto
con fronte comune
ciò che mi spinge in scena è la prima cosa che poi in scena mi respinge
tutto quello che detengo, mi detiene
c’è del marcio nel teatro
il teatro è una prigione
la teoria del bravismo. che io speriamo che me la cavo.
una buona pratica: l’ardore e disincanto nel nuovo teatro e nelle vecchie istituzioni
teorie e tecniche delle comunicazioni di massa.
teorie e tecniche delle comunicazioni non di massa.
teorie e tecniche delle non comunicazioni.
se in teatro è già stato fatto tutto,
perché c’è da fare ancora tutto?
siamo in un paese in cui servono le idee per realizzare le idee.
allora metterò uno spettacolo negli spettacoli per fare gli spettacoli.
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boom boom bla bla
viva l’italia e chi la tifò
non abbiamo i soldi per andare a lavorare
servono i soldi per andare a lavorare!
se la sensazione è vedere una luce nel tunnel,
la conferma non è la luce, è il tunnel…
politica e cultura
sono due parole che incontrandosi palesano sempre il forte imbarazzo di non capire chi delle due deve fare l’aggettivo all’altra.
allora spesso restano due sostantivi non concordi per genere e numero e si affidano alla fantasia del dicitore che, se italiano, riesce sempre a mortificarle entrambe.
due punti:
invece di immaginarci il futuro dobbiamo inventarci il presente
invece di immaginarci il futuro dobbiamo inventarci il presente
kamikaze
andiamo a fare la pace.
la guerra c’è sempre.
rimane da fare solo la pace.
non scoppia la guerra.
la pace è una cosa che si fa.
la guerra c’è sempre.
fai scoppiare la pace.
intanto, scoppia tu.
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la pace è una disposizione della mente.
la guerra, pure.
perché le persone non si parlano?
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per riuscire a dire qualcosa bisogna esser capaci di un linguaggio.
lo Stato come concetto astratto o realtà etica.
per capire qualcosa bisogna essere capaci d’una fantasia.
il Teatro come concetto astratto o realtà.
per compiere qualcosa bisogna essere capace di un coraggio.
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ché saltare, ché saltare, ché saltare,
è come aver deciso di volare.
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il teatro è sempre aperto.
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io?
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ho comprato un’armonica a bocca
perché non so suonare altro che i miei respiri
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devo andare in bagno e ho fame e sonno.
buonanotte.
(continua)
il mattino ha l’oro in bocca. il mattino ha l’oro in bocca. il mattino ha l’oro in bocca.
il mattino ha l’oro in bocca. il mattino ha l’oro in bocca. il mattino ha l’oro in bocca.
il mattino ha l’oro in bocca. il mattino ha l’oro in bocca. il mattino ha l’oro in bocca.
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il mattino ha l’oro in bocca. il mattino ha l’oro in bocca. il mattino ha l’oro in bocca.
il mattino ha l’oro in bocca. il mattino ha l’oro in bocca. il mattino ha l’oro in bocca.
e noi?
noi, buongiorno.
(continua)
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il teatro (continua)
Roberto Latini